Valeria Magini

Quando è scattata la scintilla che ti ha fatto dire “voglio fare l’artista”? Iniziare a lavorare come artista è stata una scelta difficile da prendere. Avendo studiato tutt’altro, negli anni ho continuato a cercare il modo di esprimermi formandomi in autonomia. Ho svolto diverse professioni e portato avanti molti progetti ma c’era sempre come una vocina nella mia testa che mi richiamava verso l’arte. Un anno fa, durante un periodo difficile della mia vita, ho deciso di cambiare e seguire il mio istinto; ho creduto in me stessa e così ho iniziato a fissare dei tasselli in questo nuovo percorso. L’anno si è concluso regalandomi molte soddisfazioni, la più importante è stata sicuramente la mia prima personale in centro a Roma.
Qual è stato il tuo percorso accademico e che peso ha avuto in questa scelta? Mi sono diplomata al liceo classico e successivamente mi sono laureata in Scienze Linguistiche. Ho amato studiare la letteratura e le lingue, perché conoscere diverse culture mi ha spinta a cercare un significato oltre il visibile. Da un lato c’è quello che percepiamo come reale, dall’altro c’è il mondo interiore e la sua rappresentazione. In letteratura e in linguistica tutto questo viene certamente studiato ed è proprio partendo da qui che mi sono addentrata nel mondo dell’arte figurativa.

Cosa rende il tuo stile unico? Racconto le emozioni e le rappresento attraverso immagini in movimento, in cui ci si immedesima facilmente, perché comunicano con una simbologia chiara e riconoscibile da tutti: un abbraccio, un bacio, un sorriso…. Ritraggo la vita porzionata in istantanee; il presente per me dura solo un momento che non è mai statico.
Raccontaci che evoluzione ha avuto la tua tecnica espressiva nel tempo. Sono partita, come spesso accade ai bambini, con i pennarelli e le matite; ho poi cercato di capire l’uso della pittura a olio e ho sperimentato gli acrilici. Ho cambiato tanti supporti dalla carta al cartone, dalla tela al legno, da stoffe e materiali di riciclo alla plastica. Ho fatto ricerca e ho sperimentato molto anche con una punta di insofferenza, data probabilmente dall’impazienza di trovare il mio equilibrio espressivo. Solo di recente ho scoperto i pastelli a olio e la loro capacità di stratificazione e forza nei colori vividi. Così ho fatto diversi tentativi e infine ho trovato che la carta liscia e spessa sono un’accoppiata vincente.
Nelle tue illustrazioni emerge un’atmosfera romantica attraverso rappresentazioni umane accostate al mondo naturale. Da dove arriva questa scelta? Il pensiero filosofico di Schlegel e la cruda percezione della realtà dei fatti nella “Germania” di Heine insieme all’incredibile poetica di Coleridge mi hanno lasciata in mezzo a quelle radure verdi, dove aleggia il senso di una contemporaneità decadente e serpeggia il ricordo del cavaliere che senza armatura si addentra nei boschi, per scrutare l’orizzonte e cercare l’infinito. Di fatto l’impronta del Romanticismo mi ha segnata; sono rimasta lì in quella ricerca dell’irrazionale umano incatenato dall’oblio moderno e quotidiano.



Il tuo tratto è molto riconoscibile. Hai capito subito quale fosse la tua identità espressiva? No. Ho faticato molto per capirmi e penso di trovarmi sulla linea della partenza. Ma mi piace dove sono adesso, perché mi riconosco. Il mio tratto mi rappresenta perché racconta quello che vivo e sento con dei contorni indefiniti, aggettivo con cui sento affinità. Le prove e le ricerche che ho fatto negli anni mi hanno permesso di rivedermi sulla carta.
Quali sono, secondo te, gli elementi imprescindibili che rendono un artista “professionista”? Metodo, ordine, uno spazio e la capacità di comunicare in modo efficace con chi si lavora. Un artista professionista è tale se da una parte sa gestire al meglio il proprio spazio di lavoro – rispetta le scadenze, ordina la propria produzione in modo metodico – e dall’altra sa relazionarsi con l’acquirente in modo giusto e, in questo, penso che l’empatia sia indispensabile.




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